Il 25 giugno 2015 è entrato in vigore il decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81, attuativo della delega contenuta nel cosiddetto “Jobs Act”, la legge per la riforma del lavoro approvata nel 2014 dal Parlamento. Questo decreto riscrive la disciplina di molti contratti di lavoro, ad esempio le collaborazioni a progetto, il lavoro intermittente, il lavoro a tempo parziale e a tempo determinato, la somministrazione di lavoro, l’apprendistato ed il lavoro accessorio, abrogando molte leggi precedenti in tema di lavoro.
Dalla lettura del testo del decreto, tuttavia, il terzo settore non ne esce bene, in quanto il legislatore non pare aver preso in considerazione le sue particolari esigenze.
La scelta operata dal legislatore di privilegiare sopra ogni altra forma contrattuale quella del lavoro subordinato, chiude definitivamente alla possibilità di regolamentare tutte quelle forme di lavoro tipiche del terzo settore, caratterizzate più dalla volontarietà e gratuità della prestazione che dalla sua modalità di rimborso o remunerazione, con il rischio che, per motivi di convenienza economica e di oggettiva impossibilità di sostenere un costo del lavoro sproporzionato rispetto alla capacità economica e finanziaria di molte associazioni, porti al proliferare di comportamenti non più consentiti dal 1 gennaio 2016.
Principio ispiratore e filo conduttore del decreto n. 81 è la predominanza su ogni altra forma contrattuale del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Per quanto concerne la collaborazioni, si applicherà la disciplina del rapporto di lavoro subordinato nel caso in cui si concretino in:
- prestazioni di lavoro esclusivamente personali,
- prestazioni continuative nel tempo,
- prestazioni le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento a tempi e luoghi di lavoro.
Vi sono alcune deroghe al principio sopra enunciato, con riferimento a:
– collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali prevedono discipline specifiche in ragione di particolari esigenze produttive ed organizzative di determinati settori;
– collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali;
– attività prestate nell’esercizio delle loro funzioni dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;
– collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate ed agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I., come individuati e disciplinati dall’articolo 90 della legge 27 dicembre 2002 n. 289.
Sono quindi salve le collaborazioni cosiddette “sportive” ed i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di carattere amministrativo- gestionale di natura non professionale, rese in favore di società ed associazioni sportive dilettantistiche? Oppure si può ravvisare dalla lettura della norma la nascita di un nuovo genus di collaborazioni inquadrabili fiscalmente tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente e assoggettati a contribuzione Inps/Enpals?
Parrebbe che il legislatore sia orientato verso la prima soluzione, ovvero continuare a garantire la possibilità per le società ed associazioni sportive dilettantistiche di ricorrere all’articolo 67, comma 1, lettera m) del Testo Unico delle Imposte sui redditi e quindi di erogare compensi esenti fino ad euro 7.500, non soggetti ad alcuna contribuzione previdenziale. Quanto sia legittimo e soprattutto opportuno perseverare nel consentire tale inquadramento non è compito di questo intervento ma, in ogni caso, fatte salve le collaborazioni citate, balza all’occhio quella che parrebbe trattarsi di una svista del legislatore. Sembrano infatti escluse dall’agevolazione tutte le collaborazioni sportive ed amministrativo-sportive di cui all’articolo 67, comma 1, lettera m) del Testo Unico delle imposte sui redditi rese in favore di federazioni sportive nazionali, di discipline associate e di enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I., che erano state ammesse con la legge n. 14 del 2009.
Trattasi di una mera svista oppure è questo l’intendimento del legislatore?
Scompaiono altresì l’associazione in partecipazione con solo apporto di lavoro così come i contratti a progetto, entrambi molto utili per il mondo dell’associazionismo.
Per remunerare i collaboratori saltuari, molto frequenti nel terzo settore, sembrerebbe rimanere la soluzione del lavoro accessorio, i cosiddetti voucher, con un limite annuo di 2.000 euro, corrispondenti a 269 buoni lavoro da Euro 10,00 ciascuno, per committenti imprenditori o liberi professionisti (limite altrimenti fissato ad euro 7.000).
La domanda che possiamo porci è la seguente: l’associazione che possiede la partita iva lo è?
Euro 2.000 sono un limite veramente troppo basso per la stragrande maggioranza degli insegnanti, istruttori, maestri, collaboratori, allenatori e così via che prestano la propria attività in favore di enti non profit.
Molti sono i nodi da sciogliere ed i chiarimenti necessari: si auspica un urgente intervento chiarificatore sui temi esposti, al fine di poter porre il mondo dell’associazionismo nelle condizioni di poter affrontare con serenità il nuovo anno.